Cucina Umbra

CUCINA UMBRA | VINI UMBRI

La cucina umbra, le cui radici affondano nella civiltà degli Umbri e dei Romani[senza fonte] è fondata su lunga tradizione, con piatti non sempre poveri o popolari, ma con frequente uso di legumi e cereali. Poco influenzata dalle regioni vicine, si basa essenzialmente sulla carne e su prodotti della terra, che vengono usati sia nelle grandi occasioni sia nel pasto quotidiano. È una cucina semplice, con lavorazioni in genere non troppo elaborate, che esaltano in modo netto i sapori delle materie prime.

La tipologia può essere divisa in tre macroaree che, a grandi linee, corrispondono alla suddivisione socio-culturale in cui è ripartita la regione.[non chiaro] Tipica di tutto il territorio è la lavorazione di carni suine e la produzione di salumi: particolarmente rinomati sono quelli della zona di Norcia, da cui il termine italiano “norcino”, che per antonomasia designa il produttore e venditore di salumi. Altri ingredienti “nobili” che ricorrono nei sapori umbri sono il tartufo, autentico emblema di questa gastronomia (in special modo sul versante montano a est della regione e nella media e alta Valnerina), nonché l’olio extravergine di oliva, indispensabile nella quasi totalità delle ricette locali. I territori di Orvieto, Montefalco, Torgiano e la zona del Lago Trasimeno sono inoltre celebri per i loro vitigni, da cui vengono ricavati numerosi vini DOP.

Fonte: wikipedia

Piatti tipici Umbri

Arvortolo

Specialità del territorio perugino, l’arvortolo è sinonimo di festa, anzi di sagra. Questa pizzetta fritta dorata è proprio quello che ci vuole per dare il via alle celebrazioni. L’impasto è semplicissimo, farina, olio e sale (o zucchero nella variante dolce) che viene poi tuffato nell’olio bollente e arvortolato, ovvero rigirato più volte per assicurare la cottura perfetta in entrambi i lati. La pizzetta perfetta da addentare al volo per cominciare questa playlist di piatti tipici.

Mazzafegato

Abbiamo nominato i salumi, rimaniamo in tema. Tutti sappiamo cos’è il norcinaro, parola per quella figura professionale che ormai si trova in giro per l’Italia intera, talmente inflazionata che il legame con la città di Norcia lo ha perso del tutto (per chi ce l’ha mai avuto, s’intende). Il norcinaro umbro in questo articolo lo dobbiamo nominare per forza, perché quello vero qui è una superstar : ci trovate alcuni dei salumi più pregiati, come salsicce di cinghiale, barbozzo, ciauscolo, capocollo e tanto altro.

Tra questo ben di Dio c’è anche il mazzafegato, che non solo è un salume buonissimo dalla lunga tradizione, ma è anche un Presidio Slow Food. A Città di Castello e Umbertide, dicono, trovate il mazzafegato autentico: una salsiccia di carne di maialetritata grossolanamente, di colore scuro per l’aggiunta di cotenna e fegato e dal sapore aromatico dato da aglio, scorza di limone o arancio e fiori di finocchio.

Oggi ci sono sette produttori che, sotto l’egida del Presidio, lavorano manualmente il mazzafegato, imbudellando e legando con lo spago salsiccia dopo salsiccia. Un mestiere antico che anche voi potete aiutare a valorizzare. Come? Semplicemente mangiando.

Strangozzi alla spoletina

Quel che non strozza ingrassa: è proprio il caso di dirlo se vogliamo occuparci degli strangozzi, le spesse fettuccine fatte in casa tipiche di Spoleto e della zona di Foligno. La pasta è a sezione rettangolare con una sfoglia mista di grano tenero e duro spessa almeno 2 mm. La ricetta, per tutti i vegani all’ascolto, non prevede uova.

Gli strangozzi, oltre ad avere il cambio di vocale a ogni piè sospinto (strIngozzi, strEngozzi, strOngozzi) a seconda della zona e del dialetto, si camuffa sotto mentite spoglie andando a designare altri tipi di pasta tipici. Le ciriole di Terni e gli umbricelli di Perugia (un po’ più tondeggianti, concediamo almeno questo) si possono considerare varianti della stessa ricetta in cui, più che il formato, è il condimento a fare la differenza. Vi diamo qualche dritta: strangozzi con tartufo nero di Norcia, umbricelli alla norcina con salsiccia, ricotta, pecorino e tartufo, ciriole all’aglio, olio e peperoncino.

Palomba alla ghiotta

Ci spostiamo a Todi per questo piatto che darà soddisfazione a tutti quelli che, almeno una volta nella vita, hanno sognato di rendere pan per focaccia ai quei maledetti piccioni che hanno ben pensato di decorargli la macchina, o peggio, la testa con le loro deiezioni.

La palomba alla ghiotta è il piatto tipico di questa zona, specialmente Cecanibbi dove non solo c’è una sagra dedicata ma addirittura un Club nazionale per la caccia al pennuto: evidentemente devono volergli davvero male. Torniamo a noi. Una volta catturato, il piccione viene spennato, sfiammato e lavato; dal corpo vengono separate testa, collo, ali e zampe che, macinate e condite con capperi, olive, fegatini, pane e prosciutto, andranno a costituire la ghiotta. Questo miscuglio tritato viene strategicamente messo nella leccarda, sotto lo spiedo in cui è infilzato il corpo della palomba ben spennellato di olio e rosmarino, in modo da raccoglierne il grasso. Alla fine il piccione viene in qualche modo ricomposto attraverso il magico incontro tra petto, cosce e il loro intingolo. Attenzione: la ghiotta è talmente, beh, ghiotta che rischia di finire prima che la palomba sia pronta. Bandite forchette, cucchiai, crostini, pezzi di pane, e già che ci siete, tagliate pure qualche mano qua e là.

Impastoiata

C’è una sorta di tattilità, unita a un senso di pienezza e calore, nella parola “impastoiata”. Questo piatto unico a base di polenta e fagioli borlotti richiama il gesto scandito e continuo del mestolo che si fa strada nel pentolone dove ribollono acqua e farine. Diciamo farine al plurale perché l’eredità umbra del farroè così forte che non è riuscita a soccombere del tutto a quella di granoturco. La storia dell’impastoiata è quella che accomuna tutti i piatti cosiddetti poveri, in cui cereali e legumi si sposano per far fronte alla scarsità di carne che spesso affliggeva i ceti più bassi. Oggi, con un po’ di studi sulla nutrizione, lo consideriamo senza dubbio un piatto ricco: polenta fatta in casa, fagioli conditi con erbe aromatiche e olio buono… ed è subito comfort food.

Friccò all’eugubina

Digitate la parola fricò su Google a vostro rischio e pericolo e buona fortuna a capirci qualcosa. Il termine, il cui significato più famoso riconduce al frico friulano di patate e formaggio, viene usato per preparazioni regionali anche molto diverse tra loro. Il problema sta alla radice, ovvero l’etimologia: viene dal latino frigo, ovvero friggere e abbrustolire, o è un’abbreviazione di fricandò, portata cotta in umido con le patate e a sua volta derivazione del fricandeau francese, che però sta a indicare la carne rosolata?

Insomma, un ginepraio da cui scaturiscono contorni a base di verdure, frittate, frittelle, pasticci e chi più ne ha più ne metta. Forse il friccò (due c e un accento finale, mi raccomando) all’eugubina riesce a mettere d’accordo tutti. Si tratta di una sorta di spezzatino di carne bianca (pollo, agnello, coniglio) servito in coccio in cui ritroviamo sia la carne rosolata, sia la cottura in umido, sia le verdure di contorno. Obbligatorio fare la scarpetta con la crescia di Gubbio, versione locale della torta al testo.

Parmigiana di gobbi

Il cardo è quell’ortaggio selvatico che si ripesca dal ricettario soltanto un paio di volte all’anno (vedi per il Bagna Cauda Day dell’autunno piemontese) e poi puntualmente si ripone nel dimenticatoio culinario. Male, molto male. Perché questo parente del carciofo, dal sapore dolce e delicato e dalle proprietà depurative, ha tantissimi usi in cucina e riesce a scalzare anche le verdure che di solito gli rubano la scena. Vedi la parmigiana di gobbi, il piatto tipico perugino delle festività natalizie a base di cardi fritti e gratinati con salsa di pomodoro, macinato misto e tanto formaggio grattugiato. Come dite, melanzane? Nella parmigiana? Una forchettata di gobbi (forse) vi convertirà a nuovi sapori.

Rocciata

Non chiamatelo strudel di mele, anche se ammettiamo che la tentazione è molto forte. La rocciata umbra è il dolce tipico di Assisi e della zona di Foligno il cui nome non ha niente a che vedere con le pietre, né a una presunta “durezza” della consistenza: roccia in dialetto umbro significa “tonda” e si riferisce alla sua forma tipicamente arrotolata. Torniamo al paragone con lo strudel: mentre la versione austriaca e altoatesina prevede un impasto morbido e burroso, la rocciata è avvolta da una sfoglia sottile e croccante a base di farina, acqua e olio d’oliva che racchiude un ripieno di noci, mele e frutta secca. Un’ulteriore differenza sta poi nel colore rosso della superficie dovuto alla spennellatura con alchermes.

Rispetto allo strudel, dunque, la rocciata è proprio un’altra cosa. È anche salata, e in questo caso diventa fojata: in Valnerina, provincia di Terni, questa preparazione prende il nome dalle “foglie” che tipicamente ne costituiscono il ripieno, ovvero spinaci, bieta, cicoria ed erbette di campo. Infine, a Nocera Umbra la rocciata diventa biscio, serpentone salato a base di verdure cotte in padella e tradizionalmente consumato come spuntino dai pellegrini che percorrevano la Via Francigena. Anzi, in dialetto sdigiunino, gustoso (e indubbiamente miglior) precursore degli odierni snack spezza-fame.

Pinoccate

Ogni tanto una (piccola) botta di zuccheri ci vuole. In Umbria al posto delle caramelle ci pensano le pinoccate a tirarvi su, che sia per un calo di pressione o  semplicemente un attacco di golosità. Questi piccoli rombi dolci di pinoli sono tipici del periodo natalizio, resi ancor più festivi dagli incarti brillanti e coloratissimi che li contraddistinguono. A seconda dell’aggiunta o meno di cacao, le pinoccate possono essere nere o bianche: in ogni caso prepararle (e ahimé mangiarle) è fin troppo semplice. Bastano acqua, zucchero, pinoli e la scorza di limone grattugiato, senza dimenticate l’involucro più originale che riuscite a trovare.

Fonte: dissapore.com